Quella panchina laggiù

Non so ancora il perché eppure mi ricordo perfettamente di essermi girato, ma senza animosità.
Avevo certo motivo per dire qualcosa o gridare visto che era ormai abbastanza lontano eppure, lo riconosco, quella mattina quando mi ha dato uno spintone mentre usciva di fretta dal bar, mi sono voltato per una strana curiosità.
Andava via veloce, cellulare all'orecchio e gesticolava.

Il quartiere dove abito è popoloso, ma la via grande che lo attraversa ci fa sentire tutti un po' di casa, non ci si conosce tutti, certo, eppure ci si incontra e ci si incrocia spesso al punto che quasi si accenna ad un saluto e dal giornalaio si azzarda qualche commento alle partite con la delicatezza di non riferirsi alla politica quasi per non guastare quegli strani rapporti fra amici che non si conoscono, ma che si incrociano, si salutano e vanno.

Forse per questo o forse perché la spallata ricevuta mi era ricordata da un certo indolenzimento o forse perché quando si è vecchi, nei lunghi pomeriggi della pensione, la mente ha modo di rilassarsi o di complicarsi nel suo pensare, sta di fatto che, devo ammettere, mi sono fissato sull'immagine di quel giovane che usciva dal bar quasi volando mentre io entravo.

Ricordo che nella mia giovinezza, soprattutto nel vigore degli anni migliori sul lavoro, i problemi passavano non perché li risolvessi, ma perché correvo sempre avanti e loro mi stavano in fretta alle spalle: non avevo o pensavo di non avere il tempo che ho oggi. Mi sono, allora, fissato su quel giovane, col suo cellulare, per il ricordo delle mie antiche corse?
L'ho guardato per questo? Ho forse sognato nella nostalgia l'antico vigore? Oppure, imbarazzato, vado vedendo tutto ciò che nella corsa ho lasciato alle spalle?

Pensieri, pensieri, ma è sufficiente un tombino aperto, qualche transenna con l'operaio a dare indicazione all'altro dentro che lavora oppure quel vigile che non si vede mai e che quando c'è fa già
notizia o, come film tutto da godere, la discussione per difendere il diritto di parcheggiare in terza fila, sono sufficienti tante piccole cose per far volare via i pensieri e farsi prendere dall'occupazione di raccolta delle notizie con cui aggiornare la moglie una volta seduti alla tavola.

Devo dunque dire che, malgrado la mia fissazione, tutto nei giorni successivi aveva congiurato per farmi piano, piano dimenticare quel giovane che ora mi si ripresentava al semaforo con quel giornale aperto davanti agli occhi. Sto per gridare, ma preferisco correre, per quello che mi permettono le mie povere gambe, l'ho quasi raggiunto per impedirgli di attraversare la strada senza guardare, ma quello è già partito con quel suo passo veloce e, per me, quasi di corsa.
Alzo gli occhi e non riesco a capire come possa aver visto il segnale del semaforo che gli lanciava il suo via.

Da quella volta, probabilmente perché ora ci facevo caso, l'ho rivisto e l'ho incrociato più volte con la strana sensazione che quasi non mi vedesse e qualche volta, per provocarlo, per farmi guardare ho cercato inutilmente di passargli quasi sotto gli occhi.

Non voglio nascondere nulla e qui dichiaro che l'ho fatto.
Un po' per il tempo che mi avanza e molto di più per un impulso che non so ancora spiegarmi ho iniziato a seguirlo e piano piano sono andato costruendo pezzi della sua vita.

Era un assicuratore, aveva la sua agenzia nel mio stesso quartiere, ma non sono riuscito a capire dove potesse abitare perché chiudeva tardi e se lungo la giornata potevo andare dove volevo e stare fuori casa quanto volevo, per il rientro non c'era modo di sfuggire all'ora fissata da sempre: l'ora del risotto perché non fosse scotto, l'ora della cena.

In quei giorni anche l'andare al bar o a prendere il giornale o passare dal panettiere acquistavano per me sensi nuovi: in una sorta di eccitazione aspettavo il mattino per uscire e continuare le mie indagini su quel giovane, chiedendo senza parere, buttando lì una frase, un sospiro e ascoltando, ascoltando.

Per questo incrociarlo diventava ogni volta una conferma, un rafforzamento di un legame per me importante perché ogni volta lo conoscevo sempre di più. Devo dire che in lui nulla sembrava farlo attento a questa mia presenza, a questo mio sguardo fisso su di lui. "Perché?" - mi chiedevo - e mi confermavo nell'idea che era per quella sua corsa, così sua, così mossa da determinazione e da progetti.

Quella mattina il sole era più caldo e suggeriva di una primavera finalmente vicina. Seduto sulla panchina consideravo le contraddizioni e le stranezze della vita: io seduto al sole con le gambe già stanche a metà mattina e lui là al parcheggio svelto come una lepre nel raggiungere l'auto e ora nel cercare di fretta le chiavi nelle tasche.

Mi guardavo mentre dicevo parolacce nella ricerca di quella chiave che era sempre nella tasca in cui non avevo ancora cercato. Butto la borsa sull'altro sedile e mi dispiace di non avere il tempo per respirare di questa fresca aria di primavera. Accendo il motore, due o tre manovre ed esco passando veloce davanti alle panchine scaldate dal sole.

Vedo l'auto passarmi davanti veloce, mi sembra che questa volta mi abbia visto, ma rimango nel dubbio: mi ha visto quel giovane che sgomma e corre via? MI ha visto o non mi poteva o non mi voleva vedere?




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